giovedì 24 dicembre 2015

Curiosità d'arte.

Il “Sarto” è un sarto, d’alto livello: lo rivela studiosa detective canadese

Una studiosa canadese, Ingrid Mida, specializzata in storia dell'arte e del costume, docente alla Ryerson University di Toronto e curatrice in ambito teatrale e museale indaga sulla tela del Moroni "Il sarto" esposto in questi mesi alla Carrara e alla fine della sua indagine afferma: "il vestito del personaggio in posa sia coerente con quello di un sarto di alto livello".
La querelle interpretativa sorta all’indomani dell’ostensione in Accademia Carrara del dipinto “Il sarto” del Moroni può sembrare una disputa sul sesso degli angeli. Il quadro è, indiscutibilmente, un capolavoro e il soggetto è, con tutta evidenza, un professionista in campo tessile. Questo è ciò che conta. Sul piano filologico e storico, però, la questione dell’identità sociale del soggetto ritratto – sarto o mercante di stoffe? – ha pure un suo peso, e un suo fascino. Anche perché, nel caso del “Sarto”, stiamo parlando quasi di un’icona pop.
Una ricognizione on line su siti anglofoni dà la misura di quanto il dipinto, sotto la dicitura “Il tagliapanni” o “The Tailor” (il sarto), sia universalmente noto e apprezzato dal pubblico e dalla critica internazionale. Dai siti d’arte e cultura, ai blog di viaggiatori e cybernauti, agli e-shop di costume e di taglio e cucito.
La più affascinante lettura critica della tela è quella di Jonathan Jones, il celebre critico del The Guardian, che nel 2007 la annovera tra le opere top five della National Gallery sottolineando che “nessuno prima di Moroni ha dipinto così un comune artigiano”.
Il museo londinese, che ospita il quadro dal 1862, lo cataloga ed espone come “The Tailor (Il tagliapanni)”, come già secoli prima era stato definito da Marco Boschini nella sua “Carta del navegar pitoresco” (1660): “Tuttavia quel Moron, quel Bergamasco / per esser gran pittor bravo e valente […]; Ghè dei ritrat, ma in particolar / quel d’un sarto sì belo, e sì ben fato che ‘l parla più de qual si sa Avocato, l’ha in man la forfe, e vu ‘l vede’ a tagiar”.
Nell’odierno dibattito si inserisce il punto di vista di una studiosa canadese, Ingrid Mida, che ha da poco dato alle stampe “The Dress Detective”, una guida pratica all’educazione dello sguardo nell’analisi dell’abbigliamento.
L’autrice, specializzata in storia dell’arte e del costume, docente alla Ryerson University di Toronto e curatrice in ambito teatrale e museale, sta lavorando a un nuovo libro sulla moda nell’arte e ha voluto esaminare per noi il look del personaggio del Moroni. Questo l’esito della sua investigazione, che merita attenta considerazione.

“Leggere un vestito in un dipinto significa leggere sottili indizi ed è un’operazione che va affrontata con cautela, perché è difficile sapere con certezza se l’artista abbia dipinto gli indumenti esattamente come erano nella realtà o se abbia preferito prendersi delle libertà artistiche. 
E’ con questa clausola che considero l’abbigliamento dell’uomo con barba nel dipinto noto come “Il Sarto” di Giovan Battista Moroni, datato 1565-70. Ritengo che il vestito del personaggio in posa sia coerente con quello di un sarto di alto livello.
Il farsetto indossato dall’uomo esibisce notevole abilità nella fattura del capo, ma è fatto di una stoffa relativamente comune – una lana non tinta che è stata appena traforata (a pattern di piccoli tagli). Per il resto è disadorna e abbottonata davanti. L’attacco delle maniche alle spalle è camuffato con una leggera “ala” e i polsini sono a misura di polso. Il farsetto è indossato sopra una camicia bianca di lino con collare e polsini increspati. Le sue rosse brache a sbuffo sono tagliate e rigonfie in proporzione alla moda di allora. La cintura di pelle attorno alla vita ha un aggancio per il fodero di una spada, ma la spada non c’è e l’uomo impugna invece un paio di forbici come se fosse in procinto di tagliare la stoffa che è stesa sul tavolo. Indossa anche un anello d’oro e rubino.
L’anello al dito e il sostegno per la spada – che indicano il diritto di portare le armi – sono importanti marcatori di status. I dettagli del farsetto sono prova dell’abilità del sarto ma comunicano anche una posizione modesta nella società, poiché il tessuto non risalta del lustro di una stoffa più costosa come la seta, a cui un mercante di stoffe avrebbe avuto più facile accesso. Il vestito dell’uomo nel dipinto di Moroni esprime il sentire del Rinascimento italiano dove “drappo e colore fa all’uomo onore”.

Nonostante alcuni studiosi abbiano sostenuto che la professione sartoriale fosse un’attività inferiore nel Rinascimento, l’atto di tagliare e dare forma alla stoffa in capi d’abbigliamento su misura richiedeva notevole perizia ed esperienza. Oltretutto, la stoffa era molto costosa e la sua qualità rispecchiava la posizione economica di chi la indossava. Sarti d’alto livello che servivano le élite erano molto richiesti e potevano esigere notevoli retribuzioni. Per esempio, è documentato che Lorenzo Ghiberti dovesse al suo sarto, “Antonio, El Maestro”, l’ampia somma di 15 fiorini (Brucker 1971).
L’uomo dipinto dal Moroni è in posa rilassata, pronto a tagliare la stoffa che ha davanti. Il cui tessuto nero, colore che era riservato a uomini di un rango più alto, è stato segnato dal gesso secondo il modello richiesto per un preciso capo d’abbigliamento. Se quest’uomo fosse un mercante, l’artista avrebbe più probabilmente dipinto una pila di tessuti piuttosto che una semplice pezza di stoffa.
Non c’è un argomento decisivo a favore di questa analisi, ma i sottili indizi dell’abbigliamento e dell’impaginazione del quadro suggeriscono che quest’uomo sia un sarto d’alto livello”.
La questione, qui acutamente esaminata, sarà forse destinata a non trovare una soluzione. Certo è che la straordinaria attenzione e l’appassionata curiosità che lo sconosciuto “tagliapanni” del Moroni suscita, vanno al di là del chiarimento di tale, pur intrigante, dilemma.
Stefania Burnelli

Arte di Schiavone

Andrea Schiavone. Un dalmata a Venezia Museo Correr, Venezia – fino al 10 aprile 2016. Il controverso pittore venuto dalla Dalmazia torna nella “sua” Venezia con una mostra che ne ripercorre la storia, affascinante e misteriosa. Capace di conquistare Tiziano e ispirare Rembrandt, Andrea Schiavone trova finalmente il riconoscimento che merita. Con buona pace di Vasari. Scritto da Paolo Marella | giovedì, 24 dicembre 2015

SCHIAVONE CHI?
Quella di Andrea Meldola detto Schiavone è una storia particolare, di grande fascino e mistero. La sua biografia è fumosa, colpa delle poche fonti rimaste e della scarsa documentazione in merito. Ciò che desta ancor più interesse è la sua produzione artistica, passata prima sotto le forche caudine dei critici della sua epoca – Vasari in primis – e poi celebrata da illustri colleghi e maestri, come Annibale Caracci o Tiziano.“Schiavone chi?”, in molti si chiederebbero, e non a torto. Egli incarna l’eccellente secondo posto, il numero due, un talento tra i maestri della Venezia cinquecentesca. Facciamo ordine. Andrea Meldola nasce quasi certamente a Zara, nell’odierna Croazia, nei primi anni del Cinquecento (tra il 1510 e 1515). Lo spostamento in terre veneziane più accreditato lo vuole attivo intorno alla seconda metà del quarto decennio, ma la scarsità di fonti non permette una ricostruzione affidabile. Quello che possiamo supporre è che arrivò a Venezia per imparare dai grandi, mentre è certo che fu autodidatta e trovò in Parmigianino un maestro ideale. Provate, dunque, a immaginare cosa sia stata la Venezia rinascimentale – straordinario scenario delle arti – e come l’arrivo di questo sconosciuto abbia, in poco tempo, cambiato il parere di molti.

UN ARTISTA FUORI DAL CORO
Schiavone fu un artista fuori dal coro – coro che contava personalità come Tiziano, Veronese, Caracci, El Greco, giusto per citarne qualcuno –, capace di imporsi con una tecnica assolutamente nuova e spregiudicata, dando vita a una pittura rapita, abbreviata, sbozzata, “di tocco”, che fece scalpore nella Venezia del tempo.
Fu proprio questa novità assoluta a spaccare l’opinione pubblica. Vasari sminuì Schiavone nella seconda edizione delle
Vite (1568), al contrario Annibale Caracci scrisse che “Schiavone fu spiritoso e gratioso pittore, e così spedito e facile che avanzò di gran lunga molti pittori fiorentini i quali Vasari essalta fino al cielo”. Storie anche di oggi, potremmo dire. Paolo Pino, nel 1548, tra le pagine del Dialogo di pittura, attacca senza remore il pittore dalmata, definendo la sua tecnica un “empiastrar”, un pasticcio, insomma.
Ecco come lo sconosciuto venuto dalla Dalmazia, nella seconda metà del secolo, conquistò un primo piano nel panorama artistico di Venezia. Lo dimostra la menzione da parte di Francesco Sansovino nel suo
Delle cose notabili che sono in Venetia(1561). E Schiavone non era ancora arrivato nel pieno della maturità artistica quando, nel 1548, Pietro Aretino, in una missiva, gli porgeva la propria stima e quella espressa nei suoi confronti da
“il mirabile Tiziano”. Ci sarà stato anche un motivo se Jacopo Tintoretto – come poi rivelò successivamente il figlio Domenico –“teneva avanti a sé, come per esemplare, un quadro di questo Auttore per impressionarsi di quel gran Carattere di Colorito, così forzuto e pronto”. E basterebbe guardare Sacra Famiglia con Santa Caterina o
Infanzia di Giove, per capire perché Marco Boschini nella Carta del navegar pitoresco(1660) esalta lo stile
“terribile e feroce” della “furia Dalmatina”, dal pennello veloce come una freccia.

TRA VENEZIA E L’EUROPA
In questo marasma di critiche ed elogi, le opere di Schiavone raggiungono vertici di straordinario livello, tant’è che non c’è famiglia nobile (a Venezia e in tutta Europa) o patriarca che non voglia una decorazione di Schiavone o una sua opera. Produce moltissimo e a Venezia arricchisce la Liberia Sansoviniana, la chiesa di San Sebastiano, la chiesa dei Carmini e la chiesa di San Giacomo dall’Orio, tutti interventi ancora oggi visibili.
Era talmente facile trovare un’opera di Schiavone nei salotti nobili della Serenissima che fu lo stesso Vasari a ricordare che“la maggior parte delle sue opere sono stati quadri, che sono per le case de’ gentiluomini”. Anche Leopoldo de’ Medici, nel 1654, acquista da Schiavone il Caino e Abele, mentre Leopoldo Guglielmo d’Asburgo vantava nella sua collezione numerose opere del Meldola, oggi conservate nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il mito Rinascimentale veneziano trova in Schiavone un altro importante protagonista, la cui pittura, fatta di luce e movimento, colori pieni e tocchi audaci, anticiperà Rembrandt e sorprenderà Tiziano.

UNA MOSTRA A 360 GRADI
Se tutto ciò vi ha colpito, non potete perdervi la mostra allestista al Museo Correr. Un corpus di 140 opere da tutto il mondo e 80 lavori mai riuniti prima insieme. Una mostra di ricerca e necessaria, un’occasione rarissima di vedere le opere di Schiavone riunite e affiancate a quelle dei suoi grandi contemporanei.
Di squisita intelligenza allestitiva, la mostra al Correr e il corposo catalogo allegato (acquistatelo!) dà una visione a 360 gradi di quello che Andrea Meldola è stato e di quanto importante sia il suo lascito. E soprattutto per rispondere alla domanda: Schiavone chi?

Paolo Marella
Venezia // fino al 10 aprile 2016
Splendori del Rinascimento a Venezia. Andrea Schiavone tra Parmigianino, Tintoretto e Tiziano
a cura di Lionello Puppi ed Enrico Maria Dal Pozzolo
MUSEO CORRER
Piazza San Marco 52
041 2405211

Babbo Natale a Pompei

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